Non è il caso, di giudicarci senza tempo. Che il tempo è un bastardo, siamo d’accordo? Ci fa svegliare ogni mattina, vivere ogni giorno e addormentare ogni sera abituandoci alla durata. La sua, la nostra. Come fosse interminabile, come non finisse mai, e non fosse invece quel che è: un orologio che a un certo punto che non sappiamo, di colpo o dandoci avvisaglie, si fermerà. Spariremo. E non c’è niente che possiamo fare per evitarlo. Per la stessa «non ragione» per cui, dalla nostra nascita in avanti, siamo qui, dalla nostra morte in poi non ci saremo più. «La verità», canta Dario Brunori, «è che ti fa paura, l’idea di scomparire, l’idea che tutto quello a cui ti aggrappi prima o poi dovrà finire».
Cosa resterà? I ricordi. Almeno per un po’. Oggi ci racconta i suoi più lontani una donna che è «la più amata dagli italiani». E’ entrata nelle nostre case da dentro la Tv, e ci è rimasta per pomeriggi interi, ricordate? È con lei che torniamo indietro e ci fermiamo. Nel cortile di una casa, la sua, a Prenestina, alla periferia di Roma. Siamo tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta e la televisione da Pippi Calzelunghe e Candy Candy.
John Lennon intanto pubblica Imagine, Gli Eagles Hotel California; è un agosto, e sta nascendo Raoul Bova, al cinema esce Il padrino, per strada c’è l’omicidio Calabresi, ci si emoziona per la prima telefonata da un telefono portatile, mentre sta finendo la guerra in Vietnam e viene inaugurato Gardaland, e il vaiolo è finalmente debellato, e da tutte le sale del mondo si va nello spazio, è l’inizio di Guerre Stellari.
Nata a Roma il 10 agosto 1965, figlia di Vero, ragioniere, e di Maria, sarta..
Gioca con noi a Chiudi gli occhi, torna bambino, Lorella Cuccarini
«La vedo, è ancora qui davanti a me, la merenda: una fetta di pane casereccio, con su olio e zucchero. Me la preparava mia madre al ritorno da scuola, dopo le lezioni, la campanella, i cinque piani a piedi per raggiungere la porta di casa. E io l’ho ripetuta: da grande, con i miei figli piccoli. La finivo di corsa, per poi scendere giù in cortile a giocare con le amichette. A palla, con i gessi a terra, a disegnare una campana e poi a saltarci su. A volte, crescendo, ce ne stavamo lì anche solo a vivere un po’ per strada, a chiacchierare. Con lei, mia madre, che mi chiamava dalla finestra di casa, al quinto piano, appunto, e io che avevo il pensiero di farmi sempre trovare - era quello il patto - tanto che a volte facevo il giro del palazzo a grandi passi, perché non lo tradissi. Erano strutture enormi, quelle in cui abitavamo, a Prenestina. Rosa come sono spesso gli intonaci delle periferie popolari di Roma. Intorno il panettiere, il cartolaio, il chioschetto all’angolo, che vendeva fotoromanzi di seconda mano. La voce di mia madre che mi chiamava per rassicurarsi che fosse tutto a posto era calda, accogliente, pacata. Non si vorrebbe mai risalire per cena, quando sei un bambino con le mani sporche di resina. Lei la ricordo da buona sarta tutta la vita davanti alla macchina da cucire, faceva maglioni bellissimi, all’epoca andavo pazza per le Barbie e lei confezionava i vestiti per loro e per me, uguali, a misura. Col risultato che mi sentivo fighissima, proprio come gli somigliassi. Mi mettevo davanti allo specchio della mia camera, chiudevo la porta e prendevo a cantare, a ballare, improvvisando. Il mio primo pubblico sono state le mie bambole. Perché...intimidita poi smettevo, non appena qualcuno di "vero" della mia famiglia si affacciava. Su tutti, ero la cocca di mio nonno. Mi chiamava “Pollo e patatine”, ancora il mio pranzo più ambito».