Grace Paley è stata una scrittrice e poetessa americana che - oltre ad avere concepito titoli bellissimi per le sue creature (L'importanza di non capire tutto, Più tardi nel pomeriggio, Piccoli contrattempi del vivere, Fedeltà, Enormi cambiamenti all'ultimo momento) in pochi versi è riuscita a raccontare con parole esatte quanto crescere sempre significhi anche riempirsi di vuoti e mancanze. Sono pochi versi i suoi, caldi. Fanno: «Un giorno stavo ascoltando la radio. Sentii una canzone: Oh, I long to see my mother in the doorway. Dio mio! dissi, la capisco. Tante volte ho desiderato vedere mia madre sulla soglia». Che in fondo è quello che cantavano i New Trolls in Quella carezza della sera.
Insomma, ne sappiamo qualcosa tutti, dai, e con noi condivide quelle sensazioni anche una delle attrici che più ci fa fieri d'averla. È entrata nelle nostre case ragazza dalla Tv, con Elisa di Rivombrosa (era il 2003 e fu consacrazione), e da allora non se n'è più andata. Dai cinema, dai teatri, dai monologhi, dai giornali. Dopo Tutto l'amore che c'è per Sergio Rubini, fa Baciami ancora per Gabriele Muccino e Tutta colpa di Freud per Paolo Genovese, diventa Anna Karenina e Oriana Fallaci. Ma qui, oggi, saltiamo tutto questo, con lei, e riavvolgiamo il nastro fino all'infanzia. Erano tempi, quelli, la fine degli Ottanta e gli inizi dei Novanta, in cui in discoteca si aspettavano i lenti, per provarci, quel «Tu non sei sola» di Michael Jackson, si portavano poi le spalline, a Natale mettevamo su il vinile di Last Christmas che era una canzone tristissima, e ci riprendevamo allora poi i colori con le sigle dei cartoni di Cristina d'Avena.
Nata a Firenze il 18 novembre 1981, papà avvocato, professore universitario di Diritto pubblico, e mamma insegnante elementare «amata sopra ogni cosa», che la richiamava per pranzo mentre lei si attardava in giardino, con in braccio un coniglio di pezza che poi passerà alla figlia, Elena, gioca con noi a Chiudi gli occhi, torna bambino, Vittoria Puccini.
«Se chiudo gli occhi e torno bambina, prima di vedere qualcosa sento - nitido, forte, qui - un profumo. Ed è il profumo della cucina di mia madre. Mia madre che ora non c’è più e che allora, nonostante lavorasse, si occupava di noi, e cucinava tanto, per noi, e amava starsene lì, in tutta la sua bellezza, a guardarci giocare da quella cucina aperta che dava sul salone, e quando cucinava il suo profumo misto a quello del suo ragù si espandeva come una luce per tutta la casa di Firenze. Era una costruita da mio nonno. La casa dove sono nata e cresciuta.
E poi... vedo il mestolo. Il mestolo che usava. È un mestolo di legno, che poi abbiamo conservato, ce l’ha mio fratello, ha un taglio nella parte centrale, ma funziona ancora benone, e ogni volta che lo ritocco torno lì. A lui, che gira in continuazione nel sugo, alle mani di mia madre che a forza di girarlo in continuazione nel sugo se l’è consumate, a noi che la osserviamo a metà tra attesa e contemplazione, e poi corriamo nel giardino che è una distesa di ulivi, tra le colline verdi e la città vicina, in mezzo ai versi degli uccellini. È ancora quello, il mio posto del cuore. Sono ancora loro, le mura che mi accolgono, mi coccolano, mi ridanno equilibrio, in momenti faticosi e stressanti. Sono state testimoni di tante vite, amori, storie diverse, quelle mura, e quando torno a chiedere loro di abbracciarmi, mi sembra ancora tanto grande, quella casa lì, ma non per questo dispersiva: è ancora capace di proteggermi. Con me che torno lì tornano le risate di ieri, che ci facevamo davanti alla Tv di Renzo Arbore e Nino Frassica, i pomeriggi interi all’aria aperta, a bagnarci - vestiti o nudi - con lo spruzzino che annaffia l’erba, e quel gioco bellissimo in cui vinceva solo uno di noi. Chi trovava, tra i fili d’erba tutti simili e nessuno uguale, il fiore con più colori dentro. Ma che meraviglia».
Un programma di Lavinia Farnese